“La patria è il luogo dove per la prima volta si è posato una sguardo consapevole su se stessi. La mia prima patria sono stati i libri”
“Memorie di Adriano”Marguerite Yourcenar
Iniziato con l’entusiasmo di chi ha sete di qualcosa di vero e spontaneo, questo laboratorio di scrittura con le mamme degli alunni non italofoni dell’Istituto superiore dove insegno L2, ha dato vita a immagini, racconti ed emozioni. Tanti colori condivisi, molti bianchi e neri ricolorati. Un laboratorio dove ciascuna di loro si è messa in gioco, ha ricordato, ha immaginato, ha desiderato. Le parole descrivono una Patria lontana e la speranza di un futuro bello, per i propri figli prima di tutto. Sono mamme, e la loro energia è quella, la loro forza viene da lì. Tutto: per riempire d’orgoglio e condividere esperienze con gli adolescenti che hanno in casa e che anche per questo le guardano con ammirazione. Tutto: anche un corso di scrittura nella scuola che i figli frequentano, le regole del passato prossimo, la pronuncia delle “e” aperte o chiuse, gli accenti, gli apostrofi e il “mamma mia, com’è difficile questo!”. Hanno scritto lettere agli elettrodomestici, raccontato il giorno più bello della loro vita, descritto un oggetto come se fosse una persona, narrato la loro vita attraverso la storia delle loro mani e giocato a smontare e rimontare le parole. Una volontà di ferro. Sono donne che hanno sempre dovuto lottare. Poche cose gli sono state facili. Parlano chiaro. No ai formalismi, assenti i non detti, pochi giri di parole. Dirette, visibili, autentiche.
La prima volta, quando sono entrare nella sala grande dell’Istituto, era già tutto chiaro. Le aspettavo seduta dietro il tavolo che c’è in fondo; davanti, un centinaio di sedie rosse. Hanno varcato la soglia come dopo un rullo di tamburi e hanno marciato verso di me: testa alta, busto eretto, falcata regolare e decisa, sguardo dritto. Qui in Italia fanno tutte le assistenti domiciliari ma nel loro Paese hanno studiato, molte di loro sono laureate. Per venire al laboratorio e liberarsi delle 12 ore lavorative giornaliere si sono fatte sostituire dalle loro figlie e hanno contrattato due ore di libertà con le persone di cui si occupano. Anche per questo hanno dovuto lottare; anche questo, però, lo hanno ottenuto. E se all’inizio è per i loro figli che hanno accettato di frequentare un laboratorio serale; è per se stesse, poi, che hanno partecipato con anima e corpo: per ricordarsi di cosa significa essere donne, leggere un libro, analizzare un farse, aprirsi a nuovi mondi, avere un sogno: “Non dormo, non mangio, vivo in autobus. Ma queste due ore del lunedì sera, non me le toglie più nessuno”.
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