“Il metodo di raccontare per filo e per segno non può essere quello giusto, nel cervello le cose non accadono in quel modo”
“Diario di una scrittrice” Virginia Woolf
Anche quest’anno ci siamo riuscite. Un gruppo di donne che lavorano, che non mollano, che stringono i denti e che si regalano la scrittura. Quelle che hanno frequentano anche l’anno scorso le ritrovo migliorate tantissimo. “In quest’anno ho scritto un sacco Tania!”. E si vede. Hanno voglia di scrivere e meno paura di fare errori. Hanno fatto il salto. Da una mezza pagina di parole sono passate a fogli e fogli di eleganti lettere tonde. Ogni volta che gli propongono un titolo, anche il più azzardato, reagiscono con il coraggio di sempre: sguardo fermo, un attimo lungo, un sorriso e la voglia di raccontare è già lì. Un secondo dopo, il titolo è nero sul foglio bianco. Preciso, con la sua data accanto. Chiedo: “Ma avete capito cosa vorrei che scriveste?” E loro; mentre tirano fuori i libri, spengono con decisione il cellulare, si tolgono la sciarpa: “Intanto scriviamo, poi vediamo!”. Le mamme e le studentesse nuove fanno presto anche loro. Per conoscerci, chiedo di raccontarmi la loro storia. In pochi minuti riempiono mezzo foglio protocollo e quando iniziano a leggerlo alla classe a voce alta capiamo che fanno sul serio. Nelle prime righe c’è già il loro nocciolo, nessuna scorza introduttiva, non cercano protezioni. Penso “Però, non hanno proprio paura di nulla”. E così anch’io oso. E quello che doveva essere un percorso lineare di scrittura si trasforma in un’acrobazia di frasi: giravolte e giri di walzer con la parola che cura, che fa ridere e piangere, che espande la vita e la fa evaporare. Parole che danzano con un ritmo mai stonato perché la musica che le fa ballare è quella della pancia. Dopo ogni incontro i titoli sono bocconi sempre più grandi, ma ogni volta loro li osservano, li assaggiano e poi li ingoiano con voluttà. Alla fine di ogni lezione sembrano passati due giorni. Incalziamo, sempre, tutte. E mentre alcune rimettono i libri nella borsa, riaccendono il cellulare, e con una mano di infilano la giacca e con un piede sistemano la sedia, altre corrono già verso l’uscita mandando baci e saluti: una manica del cappotto non ancora infilata, la sciarpa giù, ancora lunga fino a terra, i fogli e le fotocopie che straripano dalla borsa che non si chiude più. Sono quasi le otto di sera e loro scappano per tornare al lavoro, preparare la cena, far prendere le pastiglie e mettere a letto le loro “nonnine”. Sono trenta metri dal grande tavolo in cui facciamo lezione alla porta d’uscita. Ma sembra sempre che in quei trenta metri possa ancora accadere di tutto.
“Grazie prof!”
“Grazie a voi ragazze. A giovedì prossimo”
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