Insegno per due motivi: per l’aspetto umano e per quello linguistico. Soprattutto mi piace l’interlingua – la lingua di mezzo. Mi piace la sua creatività, mi piacciono gli errori che fanno gli studenti mentre la imparano, mi piace che inventino parole che non esistono. La più bella di tutte, in questi anni, è stata la parola: “Debussolato”. In una classe di adolescenti tutti provenienti dall’Africa, un giorno uno di loro mi ha detto: “Senza di Lei siamo debussolati”. Perché la lingua e l’umanità insieme danno in regalo una bussola per vivere.

Imparare la lingua italiana per molti studenti è difficile perché spesso non sono scolarizzati nel Paese d’origine. Parlo degli adulti soprattutto. A lezione, le loro facce quando ascoltano sono serie, lo sforzo che fanno è pesante, la dolcezza e la lentezza con cui procedono è commovente. Un insegnante prova  ammirazione per queste persone, per la fatica che fanno anche solo a tenere in mano la penna o a scrivere il loro nome su una linea dritta, per la felicità mista a rassegnazione che un bengalese di 50 anni, che qui in Italia ha sempre fatto il lavapiatti nel retro di un ristorante e che in Bangladesh non è mai andato a scuola, può provare nell’imparare a fare la propria firma o a leggere la parola “lavoro in nero”. Per questo avevo scritto un racconto che si intitola “L’imperfetto” perché Imperfetto è come si sente lo studente che non sa esprimersi, è il sistema politico e sociale che costringe queste persone a vivere sole e lontane da casa, è il sistema burocratico; ma è anche il tempo verbale che si usa per la narrazione. E avere le parole per raccontare fa bene. Insegnando italiano è come se desiderassi che tutte le persone che lo vogliono imparare, per studio, per necessità, per piacere o per lavoro possano sentirsi perfette.