Sono in Italia magari anche da tanti anni. Vengono da piccoli paesi lontani dai nostri dove non hanno mai studiato. Non sanno leggere e scrivere nella loro lingua madre. Non sanno leggere e scrivere in italiano. Vivono nel sommerso fino a che arriva l’Accordo di Integrazione e, se vogliono avere il Permesso di soggiorno di lungo periodo, devono superare un esame di lingua italiana. Un esame di livello “A2”. “A2” diventa la parola mantra. La pronunciano ogni sette parole, come in un cloze in versione tradizionale. Su di loro volevo fare un film. Per mostrare le loro facce quando siamo in classe, lo sforzo che fanno, la dolcezza e la lentezza con cui si procede e che rende ridicolo il numero di ore che si predispongono per i corsi – il sillabo prevede 600 ore di lezione per passare da un livello Pre-A1 a un livello A1 e 150 ore per passare dall’A1 all’A2. Volevo che chi non è un insegnante, guardando il film, per una volta fosse lì, in classe con noi, e provasse ammirazione per queste persone: per la fatica che fanno anche solo a tenere in mano la penna o a scrivere il loro nome su una linea dritta, per la felicità mista a rassegnazione che un bengalese di 65 anni, che qui in Italia ha sempre fatto il lavapiatti nel retro di un ristorante e che in Bangladesh non è mai andato a scuola, può provare nell’imparare a fare la propria firma in corsivo o a scrivere la parola nemica “lavoro in nero”. Volevo intitolare il film “L’imperfetto” che è tante cose: è come si sentono loro perché, anche se sanno parlare, non sanno leggere a che piano di un ospedale devono andare per una visita agli occhi, è il sistema politico ed economico che li costringe a vivere spesso da soli e lontano da casa, è il sistema burocratico. Ma è anche il tempo verbale che si usa per la narrazione. Quello che serve per imparare a raccontarsi, a uscire allo scoperto.