Commuove un po’ che Jhumpa Lahiri, una delle più grandi autrici americane, premio Pulitzer, abbia deciso di diventare una scrittrice italiana. Una scelta ancora più coraggiosa se si pensa che di solito si tende verso la lingua più forte, quella dominante, non il contrario. Kundera o la Kristof hanno scritto in francese, ma rinunciavano al ceco o all’ungherese. Nabokov ha abbandonato il russo per l’inglese, non viceversa. Ma dietro a questa scelta, apparentemente un po’ folle, ci sono ragioni profonde e c’è una storia complessa, che lei racconta proprio in “In altre parole”.

So che non è possibile conoscere una lingua straniera alla perfezione. Non a caso, ciò che mi confonde di più in italiano è l’uso dell’imperfetto e del passato prossimo. Quando devo scegliere tra l’uno e l’altro, non so quale sia quello giusto. […] È solo a Roma, quando comincio a parlare italiano ogni giorno, che mi rendo conto di questo scoglio. Dico “c’è stato scritto” quando si dice “c’era scritto”. Dico “era difficile”, quando si dice“ è stato difficile. Mi confondo soprattutto tra “era” ed “è stato”, due facce del verbo essere, quello fondamentale. […] Per aiutarmi il mio insegnante mi dà qualche immagine: lo sfondo rispetto all’azione centrale. La cornice rispetto al quadro. Una linea dritta anziché sinuosa. Una situazione anziché un fatto. Si dice “la chiave era sul tavolo . In questo caso è una linea sinuosa, una situazione. Ma a me sembra anche un fatto, il fatto che la chiave fosse sul tavolo. Si dice “siamo stati bene. Qui abbiamo la linea dritta, una condizione con un sapore definitivo. Eppure a me sembra anche una situazione. […] Alla ricerca di qualche indizio, noto che con gli avverbi sempre e mai si usa spesso il passato prossimo: “sono stata sempre confusa, per esempio. […] Credo di aver scoperto una chiave importante, magari una regola. Poi, sfogliando È stato così di Natalia Ginzburg – un titolo che fornisce un altro esempio del problema –, leggo: “non mi diceva mai che era innamorato di me… Francesca aveva sempre tante cose da raccontare…”. Nessuna regola, solo ancora più confusione. Alla fine imparo solo una cosa: dipende dal contesto, dall’intenzione. Ormai, la differenza tra l’imperfetto e il passato prossimo mi dà un po’ meno fastidio. So che alla fine di una cena si dice “è stata una bella serata, ma che “era una bella serata fino a quando non è piovuto. […] Capisco che l’imperfetto si riferisce a una specie di preambolo, un’azione aperta, senza confini, senza inizio o termine. Un’azione sospesa anziché contenuta, inchiodata al passato. Capisco che il rapporto tra l’imperfetto e il passato prossimo è un sistema, complesso e preciso, per rendere più tangibile, più vivido, il tempo già trascorso. […] Inutile dire che questo blocco mi fa sentire, appunto, molto imperfetta.

[J. Lahiri, In altre parole, Guanda, Milano 2015]